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Internet: un luogo in cui le donne non sono benvenute

“Le donne dovrebbero stare a casa”. “Le donne dovrebbero essere schiave”. “Le donne dovrebbero stare in cucina”. Le donne non dovrebbero parlare in chiesa”. Sono questi i suggerimenti che appaiono quando ricerchiamo su Google una frase che inizia con “Le donne dovrebbero”. Ed è solo la punta di un iceberg che nasconde sotto di se un’infinità di problematiche basate sulla discriminazione fra sessi, in questo caso verso quello femminile, che negli ultimi anni si sta sviluppando negativamente con insulti, aggressioni verbali, minacce di morte e stupro, attraverso social network e siti di incontri, ma in generale nel web. Una quantità inimmaginabile di donne deve combattere ogni giorno con molestatori anonimi che sistematicamente sfuggono alla giustizia, dileguandosi nell’immenso spazio virtuale di Internet e non lasciando nessuna traccia dietro di loro. Gli unici solchi però, che rimangono impressi, sono solamente le conseguenze delle loro azioni verso il sesso femminile.

La situazione è sempre più grave e tutti iniziano ad accorgersene. Attraverso questo articolo vogliamo riportarvi la storia di una giornalistaAmanda Hess, che ha raccontato la sua esperienza, lanciando l’allarme alle autorità mondiali e mettendo in guardia tutte le donne che si trovano sul web, spesso ingenue e poco coscienti di quello a cui vanno incontro, magari solamente spingendo un pulsante virtuale, lo stesso che potrebbe distruggere in pochi secondi un intera vita. È un argomento molto importante, che richiede serietà anche dalla parte di chi legge.

La mia vacanza a Palm Springs era cominciata da dodici ore quando nel buio della camera d’albergo il mio telefono ha squillato due volte. Ho aperto gli occhi per sbirciare lo schermo, erano le 5:30 e un’amica mi aveva mandato un sms dall’altra costa. “Amanda, guarda questo account su Twitter. E’ pazzesco” diceva. “Sembra sia stato aperto con l’unico scopo di farti minacce di morte”. Mi sono trascinata fuori dal letto e ho acceso il portatile. Qualche ora prima, una persona che usava come nome utente ‘troiasenzatesta‘ mi aveva mandato sette tweet. “Vedo che fisicamente non sei molto attraente, lo immaginavo”, diceva il primo. “Devi succhiare un sacco di fottuti uccelli di ubriachi e drogati”. Dato che sono una giornalista che scrive di sesso, questo tipo di commenti non erano una novità. Ma quel tizio andava oltre. “Ho 36 anni, ne ho già scontati 12 per omicidio colposo, ho ucciso una donna come te, che aveva deciso di prendere in giro gli uccelli degli uomini”. E poi: “Ho scoperto con piacere che viviamo nello stesso stato. Verrò a cercarti e quando ti troverò ti violenterò e ti staccherò la testa”. Ce n’erano altri, ma l’ultimo li riassumeva tutti: “Morirai e sarò io ad ucciderti. Te lo giuro”. Sono rimasta con le dita ferme sulla tastiera.

All’inizio mi sono sentita confusa e terrorizzata, poi imbarazzata per aver avuto paura, e alla fine veramente arrabbiata. Da una parte mi sembrava improbabile che da un momento all’altro sarei stata stuprata e decapitata da un serial killer. Dall’altra ‘troiasenzatesta’ era evidentemente un pazzo che aveva una strana fissazione verso di me. Così ho preso il telefono e ho chiamato il 911. Due ore dopo, un agente della polizia si è trascinato rumorosamente su per le scale del mio albergo, si è fermato sulla porta e ha cominciato a farmi domande. Gli ho dato subito le informazioni fondamentali: sono una giornalista, vivo a Los Angeles, a certe persone non piacciono le cose che scrivo sulle donne, sui rapporti e sulla sessualità. Non è la prima volta che qualcuno reagisce minacciando di violentarmi o di uccidermi. Con i pollici infilati nella cintura, il poliziotto mi domanda: “Cos’è Twitter?”. Mentre alzo lo sguardo verso di lui, l’unica risposta che mi è venuta in mente è stata: “E’ come l’email, ma è pubblico”. Non ho trovato il coraggio di dirgli che Twitter era anche il luogo dove scherzo, mi lamento, lavoro, spettegolo, perdo tempo e filtro. Me lo porto in tasca ovunque vada ed è accanto a me quando mi addormento, soprattutto da quando ho cominciato a scrivere, nel 2007, è diventato uno degli spazi online dal quale gli uomini mi chiedono di andarmene.

Gli esempi sono numerosi per elencarli tutti, ma da brava giornalista ho un file in cui conservo la documentazione dei messaggi più deliranti. C’è stato lo spettatore di una rete via cavo, che dopo una mia apparizione in tv ha trovato il mio indirizzo email e mi ha scritto che ero “la donna più brutta che avesse mai visto” che dopo aver visto la mia foto e quella di una nota femminista ha discusso a lungo su come avrebbe “passato la notte” con noi. Un lettore anonimo, che ha commentato un mio articolo dicendo: “Amanda, come ti senti all’idea che ti violenterò?”. Tutto questo non mi rende affatto eccezionale: sono una delle tante donne che si collegano ad Internet. Una donna non ha neanche bisogno di occupare un posto di rilievo per essere presa di mira. Secondo un rapporto pubblicato nel 2005 dal Pew research center, che segue la vita online degli statunitensi da più di dieci anni, dal 2000 uomini e donne frequentano Internet in ugual misura, ma le donne ricevono un numero di messaggi violenti molto maggiore e hanno più probabilità di essere perseguitate e molestate.

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Delle 3787 persone che dal 200 al 2012 hanno denunciato episodi di questo tipo all’organizzazione di volontariato ‘Working to halt online abuse‘, il 72,5% erano donne. La violenza può diventare anche fisica: da un rapporto del Pew è emerso che al 5% delle donne che usano Internet “è successo qualcosa online” che le ha messe “fisicamente in pericolo”. E si comincia da giovani. Le adolescenti corrono più rischi di essere aggredite, rispetto ai loro coetanei maschi. Sembra che su Internet basti essere donne per attrarre insulti. Nel 2006 alcuni ricercatori dell’Università del Maryland hanno aperto una serie di finti account e li hanno fatti circolare nelle chat. Quelli con nomi femminili ricevevano in media ogni giorno 100 minacce o messaggi sessuali offensivi. Quelli maschili 3,7.

Per quanto ci sforziamo di ignorarlo, questo tipo di molestie nei confronti delle donne, viste le dimensioni del fenomeno, ha gravi conseguenze per il loro status online. Le minacce di stupro o di morte, e le molestie in generale, ci fanno sentire fragili, ci fanno perdere tempo e ci costano care in termini di spese legali, spese di protezione online, tempo e denaro. Negli ultimi quattro anni ho passato ha documentare le attività online di un molestatore particolarmente ostinato, nell’eventualità che prima o poi mi scrivesse. La scorsa estate la giornalista britannica Caroline Criado-Perez è diventata famosa per le minacce online che ha ricevuto dopo aver inviato una petizione al governo britannico chiedendo di mettere più volti femminili sulle banconote. Sulla sua pagina Twitter si sono rapidamente accumulate minacce di morte e stupro, con frasi del tipo: “Ti stuprerò domani sera alle nove. Ci vediamo vicino casa tua?”. Poi è successa una cosa molto interessante. Invece di ignorarle, Criado-Perez, ha ritwittato le minacce. Poi ha chiamato la polizia e ha chiesto a Twitter di intervenire. I giornalisti di tutto il mondo hanno cominciato a parlare del caso e man mano che la notizia si diffondeva, sempre più persone iniziavano a seguire Criado-Perez su Twitter: alla fine erano quasi 25mila. I suoi sostenitori, di conseguenza, hanno chiesto alla polizia britannica e agli amministratori di Twitter di intervenire. Con gli occhi della comunità internazionale puntati addosso, la polizia e l’azienda sono state costrette a darsi da fare. Nelle settimane immediatamente successive, Scotland Yard ha confermato l’arresto di tre uomini. Twitter, in risposta a diverse petizioni online, ha accelerato l’introduzione del tasto ‘segnala abuso‘, che consente agli utenti di segnalare messaggi offensivi e di filtrarli direttamente a Twitter.

Internet è una rete globale, ma quando prendete il telefono per denunciare una minaccia, che siate a Londra o a Palm Springs, finite per trovarvi davanti un poliziotto che agisce in un ambito relativamente ristretto. Dopo centinaia di minacce, Criado-Perez ha ricevuto dalla polizia istruzioni contrastanti su come sporgere denuncia, ed è costretta a conservare tutti i messaggi come prova. “Riesco anche a sopportarle le minacce”, ha scritto su Twitter. “Quello che non sopporto è l’atteggiamento paternalistico della polizia. La vittima viene trasformata in colpevole”. La prima volta che ho denunciato una minaccia di stupro online, nel 2009, il poliziotto che hanno mandato a casa mia mi ha chiesto: “Perché mai qualcuno dovrebbe prendersi la briga di fare qualcosa del genere?”. E si è rifiutato di inoltrare la denuncia. A Palm Springs, l’agente che è venuto nella mia stanza ha detto: “Per quanto ne sappiamo, questo tizio potrebbe essere in un seminterrato del Nebraska”. Che il molestatore avesse dichiarato di vivere nel mio stesso stato e di voler venire a casa mia, per lui era solo una sparata di quelle che si fanno su Internet.

Dopo l’ultima ondata di minacce ho contattato Jessica Valenti, una nota scrittrice femminista e fondatrice del blog Feministing che è stata varie volte vittima di intimidazioni, e le ho chiesto di raccontarmi la sua storia. “In realtà non è un’unica storia. E’ successo varie volte negli ultimi sette anni”, mi ha detto. La prima volta che ha ricevuto minacce di morte e di stupro via email ha lasciato il suo appartamento per una settimana, e ha cambiato banca e numero di cellulare. La seconda volta si è rivolta alla polizia. Le hanno risposto che, anche se era improbabile che gli uomini che le scrivevano mettessero in atto le minacce, data la loro violenza avrebbe fatto meglio a stare attenta che non ci fosse dietro un pericolo peggiore. L’FBI le ha consigliato di lasciare casa sua fino a quando le minacce non fossero finite, di non uscire mai sola e di fare attenzione a eventuali uomini o automobili che vedeva regolarmente davanti alla sua porta. “Era assolutamente impossibile seguire quei consigli”, dice. “Diventi paranoica su tutto. Non puoi smettere di andare in un luogo pubblico”. E non possiamo neanche smettere di usare Internet. Quando la giornalista del TIME, Catherine Mayer, ha sporto denuncia perché avevano minacciato di mettere una bomba sotto casa sua, la polizia le ha consigliato di non connettersi più. “Erano tutti d’accordo nel dire che dovevo rinunciare a Twitter, convinti, come molti, che i social network tutt’al più siano una specie di droghe che fanno solo perdere tempo”.

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Tutti questi attacchi online ti fanno venire la voglia di lasciar perdere, spegnere il computer e staccare il telefono. Molte donne lo fanno: il Pew center ha rilevato che dal 2000 al 2005 la percentuale degli utenti che partecipano a chat e discussioni online è scesa dal 28% al 17%, “esclusivamente a causa dell’allontanamento delle donne”. Ma molte donne non possono fare a meno della rete. Usiamo computer e telefoni per trovare comunità che ci sostengano, guadagnarci da vivere e costruire reti di sicurezza. Per una persona come me, che vive sola, Internet non è solo un diversivo, è una risorsa necessaria per lavorare e rimanere in contatto con amici e familiari. Il sociologo polacco Zygmunt Bauman fa una distinzione tra ‘turisti’ e ‘vagabondi’ dell’economia moderna. I turisti sono privilegiati che girano il mondo “volontariamente alla ricerca di nuove esperienze” perché “hanno perso interesse per le gioie del familiare”. I vagabondi sono derelitti che si spostano perché sono costretta farlo, vagano senza la speranza di potersi stabilire da qualche parte. Su Internet gli uomini sono turisti e le donne vagabonde. “Dire ad una donna di spegnere il computer è come chiederle di smettere di vedere la sua famiglia”, dice Nathan Jungerson, un esperto di social media dell’Università del Maryland.

Che tipi sono i turisti? Nel 2012 il blog Gawker ha smascherato ‘Violentacrez, un anonimo membro della comunità online Reddit che era diventato famoso perché postava foto oscene di minorenni e creava o moderava sottogruppi con nomi come “strangolaputtane” o “escaperstupri“. Alla fine si è scoperto che era un programmatore texano, Michael Brusch, che parlava con eccessiva disinvoltura del suo hobby online. “Faccio il mio lavoro, guardo la tv e vado su Internet. Nel tempo libero mi piace stuzzicare la gente”, ha dichiarato ad Adrian Chen, il giornalista di Gawker che lo ha scoperto. “Le persone prendono le cose troppo sul serio”. I molestatori tendono ad agire nell’anonimato o a usare pseudonimi, ma le donne che prendono di mira, spesso, scrivono su siti professionali, con il loro vero nome e nel contesto della vita reale. Le vittime non possono concedersi il lusso di essere distaccate. Nel caso delle minacce online, “la  vittima vive la realtà di Internet in modo viscerale, si sente in pericolo”, dice Jurgenson. “Per chi minaccia o per chi indaga, è molto più facile pensare che quello che succede su Internet non accada poi nella vita reale”.

Il fatto che le autorità trattino spesso Internet come un mondo di fantasia influisce molto sulle indagini e sui provvedimenti che vengono presi contro chi fa minacce online. Per la maggiorparte delle leggi il rischio deve essere tangibile, immediato e prolungato. Nello stato dove vivo, la California, per essere considerata reato una minaccia deve essere “inequivocabile, incondizionata, immediata e specifica”, e rivelare “serietà d’intenti e immediata possibilità di messa in atto”. Quando la polizia non sa se il molestatore vive nelle vicinanze o in Nebraska, è più facile che consideri il pericolo non immediato. Se tratta la minaccia come una ragazza è ovvio che non può considerarla un reato. Quindi la vittima si trova ad un dilemma psicologico: come deve gestire la paura? Deve pensare, come le consigliano in molti, che una minaccia online è solo uno stupido gioco, e non prendersi neanche la briga di informare la polizia che forse qualcuno vuole violentarla o, addirittura, ucciderla? L’ultima volta che ho ricevuto minacce di morte e di stupro su Twitter un amico mi ha detto che potevo stare tranquilla: era improbabile che l’anonimo autore volesse poi fare qualcosa nella vita reale. Un altro amico ha osservato che le minacce sembravano fatte dal tipo di uomo che si sarebbe fatto un cappotto con la mia pelle, e ha insistito perché prendessi provvedimenti necessari per consegnarlo alla giustizia.

Danielle Citron, che insegna diritto all’Università del Maryland e si occupa di molesti su Internet, nel 2009 ha scritto un saggio sulle reazioni più comuni alle minacce di morte e stupro. Dalle sue ricerche, pubblicate sul Michigan Law Review, è emerso che le molesti online sono solitamente considerate come “chiacchiere innocue”, gli autori “giovani burloni” e le vittime persone con “una sensibilità eccessiva”. Se le forze di polizia statunitensi sono composte in prevalenza da maschi, le aziende tecnologiche che hanno creato l’architettura del mondo online lo sono ancora di più. Secondo la società di servizi di informazione Cb Insights, nel 2010 il 92% dei fondatori delle società appena nate su Internet erano uomini, come lo era l’86% delle persone che ci lavoravano. Anche se nel settore scientifico in generale il numero delle donne è aumentato, la percentuale di quelle che lavorano nel campo dell’informatica ha raggiunto l’apice nel 2000 e oggi è in declino.

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Nell’ottobre del 2013, quando ha annunciato la sua quotazione in borsa, il consiglio d’amministrazione di Twitter era formato da soli uomini. La consulente legale Vijaya Gadde era l’unica manager. Le decisioni che prendono i dirigenti delle aziende tecnologiche hanno gravi conseguenze per miliardi di persone. Lo squilibrio tra i sessi all’interno delle aziende gli impedisce di capire come vive metà degli utenti. Quando qualcuno esprime il timore che Twitter si presti alle molestie, l’azienda ha l’abitudine di dire: “ci dispiace, ma non dipende da noi”, spiega Citron. La cultura Twitter tende ad attribuire più importanza alla libertà di discussione che al controllo di quello che viene detto. A differenza di Facebook, Twitter non chiede agli utenti di registrarsi con il loro vero nome. Possono godere della protezione che offre l’anonimato. Se un utente viola le regole e viene espulso da Twitter, è libero di aprire un nuovo account con un altro nome. Secondo Citron, il tasto “segnala abuso” è una novità “molto positiva”. La possibilità di bloccare l’account di un molestatore permette alle donne di evitare lunghe seguente di tweet volgari e offensivi. Ma non tutti i problemi si possono risolvere cliccando un tasto. In alcuni casi, l’opzione “segnala abuso” è solo un cerotto virtuale per un problema molto serio nel mondo digitale. Può anche danneggiare le donne, perché cancella le tracce di un attacco, e non impedisce ai molestatori di aprire un nuovo account e di continuare a commettere lo stesso reato.

Quando ho ricevuto quei sette tweet minacciosi a Palm Springs, un amico volenteroso li ha segnalati a Twitter sperando che l’azienda facesse qualcosa per aiutarmi. Qualche ora dopo i tweet erano stati cancellati senza alcun commento e senza darne comunicazione a me. La pagina “troiasenzatesta” era stata sostituita da un’altra in cui si diceva che l’account era stato sospeso. Per fortuna avevo salvato i tweet con le minacce fotografando la pagina, ma dato che i poliziotti non avevano molta familiarità con Twitter, la loro improvvisa scomparsa aveva solo creato maggior confusione. L’agente assegnato al mio caso mi ha chiesto di mandargli il link della pagina in cui apparivano, ma dato che non aveva un mandato per accedere all’archivio di Twitter non ha potuto consultarli. Se qualcuno li avesse segnalati prima che io potessi leggerli e fotografarli, non avrei potuto dimostrare che esistevano. Senza un indagine non posso neanche sapere se “troiasenzatesta” ha colpito una sola volta o se è la stessa persona che mi perseguita da anni. Intanto niente gli impedisce di tritare con un altro nome.

Il mio molestatore ha cominciato a perseguitarmi online nel 2009, quando lavoravo per un settimanale alternativo. In un blog era scoppiato un piccolo caso: uno degli autori aveva cominciato a dare sfogo alle sue fantasie di stupro. Dopo aver intervistato lui e gli altri collaboratori ho pubblicato un articolo sulla vicenda. A quel punto ho cominciato a ricevere minacce di stupro rivolte direttamente a me. L’autore ha postato la mia foto sul suo blog e ha scritto: “Oh, certo, potete dire che è carina. O che sembra giovane e innocente. Ma non lasciatevi ingannare, questa donna è veramente malvagia, avevo pensato di scrivere che è degna di essere stuprata, ma alla fine ho deciso di non farlo”, ha aggiunto. “Ops. Ho commesso un altro psicoreato!”. Nella sezione dei commenti sono saltate fuori minacce sotto una decina di nomi fasulli e di falsi indirizzi IP. Con il software giusto gli indirizzi possono essere falsificati. “Amanda, giuro che ti stuprerò”, diceva uno. “Che ne pensi? Ti piace l’idea? Qual’è il mio indirizzo IP, puttana?”.

Una sera, mentre io e il mio compagno eravamo a casa, il mio cellulare ha cominciato a squillare incessantemente. Ho ricevuto una serie di messaggi vocali che passavano da un secco “smettila di scrivere cazzate” a un farfugliato “fottuta puttana… ti scoperò”. Per la prima volta ho chiamato la polizia. Quando l’agente è arrivato, gli ho raccontato com’erano andate le cose. E’ rimasto sconcertato da quel reato virtuale‘, mi ha dato il suo biglietto da visita e mi ha detto di chiamarlo se qualcuno fosse venuto a casa mia, ma si è rifiutato di accogliere la mia denuncia. Senza il sostegno della polizia ho deciso di rivolgermi a un tribunale civile. Ho attaccato la foto del mio molestatore nella portineria del mio ufficio. Visto che la polizia locale non gli aveva consegnato la notifica, ho dato cento dollari ad un investigatore privato per farlo. Sono dovuta andare in tribunale per cinque volte.

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Quando finalmente il giudice ha emanato una richiesta di ordinanza restrittiva, avevo perso una settimana di lavoro. Per fortuna avevo un impiego a tempo pieno e un capo comprensivo, anche se non dava alle minacce la stessa importanza che gli davo io. E dato che nel mio caso rientrava nelle nuove norme per la protezione dello stalking, perché ero stata molestata da una persona con cui non avevo nessun rapporto, ho avuto anche la fortuna di vedermi assegnato un avvocato d’ufficio. La maggior parte delle vittime non ce l’ha. Il mio molestatore ha accettato di stare alla larga da me quando il mio avvocato gli ha dimostrato che sapevamo che gli attacchi provenivano dal suo computer. Aveva fatto un tentativo di cancellarli, ma gliene erano sfuggiti un paio e abbiamo potuto dimostrare che le minacce provenivano da lui. Dopo aver emanato l’ordinanza, il giudice ha detto al mio molestatore che non poteva contattarmi in nessun modo, né per email, né tramite Twitter, telefono, blog e neanche affittando una mongolfiera per sorvolare casa mia con uno striscione. Doveva stare almeno a trenta metri da me in qualsiasi momento. L’ingiunzione valeva per un anno.

Appena è scaduta, lui ha mandato subito un’email al mio nuovo ufficio. E ogni tanto cerca di riprendere contatti. L’estate scorsa è entrato nella sezione dei commenti di un articolo che avevo scritto per dire: “Non rinuncerei al piacere fisiologico di eiaculare dentro una donna per nessun piacere psicologico. C’è un motivo per cui è giusto farlo così, e nel mondo dei primati non esiste nessuna specie che si comporta diversamente”. Qualche mese dopo mi ha contattato su LinkedIn: “Il tuo molestatore vorrebbe aggiungerti alla sua rete professionale”. Qualche giorno prima che ricevessi le minacce a Palm Springs mi aveva mandato su Twitter il link a una storia che aveva scritto su un’altra donna che era stata molestata online. Ogni tanto mi manda un tweet, per ricordarmi che “il gioco non è finito”.

Sono passati quattro anni, ma porto ancora i documenti del processo con me. Trascrivo tutti i tweet che mi manda, spedisco le sue email ad un account che ho appositamente aperto e le stampo per poter essere sicura di mostrarle alla polizia nel caso mi minacciasse di nuovo. Ogni volta che vado per lavoro nella città dove vive, mi porto dietro l’ordinanza del giudice, anche se l’ho fotocopiata talmente tante volte che non si legge quasi più. Tutte queste carte sono archiviate con cura a casa mia, le mie ansie, invece, sono più difficili da organizzare.

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