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Tutto è uno

Se ci guardiamo intorno, vediamo una molteplicità di esistenti che si dislocano nello spazio e divengono attraverso il tempo. Così gli esistenti ci appaiono. Ma come sono realmente? Qual è il loro vero essere, la loro verità? Ce lo chiediamo, perché abbiamo la sensazione viva che, al di là delle apparenze, ci sia una realtà fondamentale, una realtà assoluta, definibile in maniera ben diversa. Così noi ci sentiamo sollecitati ad affinare, ad approfondire la nostra sensibilità metafisica; e via via sentiamo di conseguire una sensibilità sempre più matura. Ecco allora che, alla luce di una migliore presa di coscienza, ci pare di aver compiuta un’importante scoperta. Di che si tratta? Penso che si possa riassumere in una frase come questa che segue: “L’intera, profonda, assoluta realtà delle cose è olografica. Il tutto è un ologramma“. Cercherò di definire meglio il senso di tutto questo, procedendo per gradi. Nel proporre le definizioni, un po’ lapidarie, appena enunciate, ho tirato fuori di punto in bianco due parole: il sostantivo “ologramma” col suo aggettivo “olografico”. Sono termini che richiedono una definizione previa. Che cos’è un ologramma? Si è detto che la natura olografica del vero profondo essere delle cose è oggetto di una scoperta; ma, quanto all’ologramma, direi che si tratta, piuttosto, di un’invenzione.

L’olografia è un metodo, una maniera di fotografare un qualsiasi oggetto, così da poterne ottenere una proiezione tridimensionale, solida, a differenza di quanto si ottiene per mezzo di una diapositiva o di una proiezione cinematografica, che sono piatte, a due sole dimensioni. La luce laser è un tipo di luce estremamente pura e coerente, che in modo particolare si presta alla formazione di ologrammi. Un raggio di luce laser viene sdoppiato. Dei due raggi che ne risultano, il primo viene diretto su un oggetto da fotografare; mentre il secondo, per via di un sistema di specchi, viene ad incontrarsi con la luce riflessa del primo. I due raggi di luce che vengono a risultare in ultimo, incontrandosi, generano una configurazione o schema di interferenze, che viene registrato su una porzione di pellicola.

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Attraverso questa porzione di pellicola si può proiettare un altro raggio laser o, in certi casi, anche solo una luce intensa. Se ne otterrà una immagine a tre dimensioni. Attorno a tale immagine si potrà girare a piacimento come esplorando una realtà concreta e viva, osservandola da ogni angolo visuale in tutti i suoi dettagli. L’illusione ottica verrà meno solo quando allungheremo una mano, per constatare che quell’immagine è fatta di pura aria. Si è visto, più o meno, che cos’è un ologramma. Ma, per concludere che l’intero essere delle cose è esso stesso olografico, bisogna compiere un altro passo avanti. Prendiamo la porzione di pellicola sulla quale un oggetto è fotografato, e tagliamola in pezzettini anche minutissimi. Noteremo che ciascun pezzettino comprende non una parte dell’ologramma, bensì l’ologramma intero. Potremmo dire, al limite, che ciascun punto dell’ologramma contiene il tutto. Un terzo passo avanti è la constatazione che non solo ogni pellicola o frammento di pellicola ha questa proprietà, ma che il medesimo può dirsi della realtà universa, come di ciascun suo punto.

Si perviene ad una tale conclusione solo raccogliendo e confrontando tutti quei fenomeni che la suggeriscono in maniera sempre più diretta e specifica. È di particolare aiuto, in questo, un libro di Michael Talbot, che nell’edizione originale del 1991 è intitolato ‘The olographic universe‘. Giova, all’inizio, riferire in estrema sintesi qualche essenziale notizia ricavabile da questo libro. Negli anni venti il neurochirurgo canadese Wilder Penfield si era convinto che ogni ricordo o tipo di ricordi particolare avesse nel cervello una sua locazione specifica. Al contrario Karl Pribram aveva osservato che, quando ad un paziente veniva asportata una porzione anche cospicua del cervello, egli non subiva mai la perdita di ricordi specifici. Verso la metà degli anni sessanta, Pribram lesse un articolo che descriveva la prima costruzione di un ologramma. Ne fu sollecitato a riformulare la propria scoperta nei termini suggeriti da quella recente invenzione. E concluse che ogni parte del cervello contiene tutta l’informazione necessaria per richiamare un ricordo completo. Pribram, poi, si rese conto che non solo la memoria, ma la stessa capacità di vedere non è affatto legata ad alcuna localizzazione del cervello, ma è diffusa e olografica.

Nel frattempo il fisico David Bohm perveniva alla conclusione che l’intero universo è strutturato come un ologramma. Questo concetto è da porre in rapporto con la scoperta che un elettrone è del tutto privo di dimensioni spaziali. Esso, infatti, si può manifestare come particella, ma altresì come onda. I fenomeni subatomici, detti quanti, sono sia onde che particelle. Si manifestano come particelle quando noi li guardiamo, altrimenti sono onde. Poiché esistono come particelle solo quando vengono osservate, non si può dire che le particelle subatomiche siano ‘cose‘ ciascuna esistente in sé in modo separato. Il fisico danese Niels Bohr aveva concluso che i fenomeni subatomici sono parte di un sistema indivisibile. Bohm accettò e fece propria la posizione di Bohr, non solo, ma le diede ulteriore sostegno. Fu quando constatò che grandi quantità di elettroni dai movimenti apparentemente casuali rivelavano, poi, in realtà, un agire altamente coordinato.

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Ciascun fenomeno subatomico avveniva come se ogni particella sapesse bene quel che trilioni di altre particelle stavano facendo in contemporanea. Bohr negava che, al di là del paesaggio subatomico, esistesse alcuna realtà più profonda, mentre invece fu questa la tesi di fondo verso cui si orientarono le ricerche di Bohm. Così questi pervenne a formulare l’idea che, al di là e alla base dei quanti di energia, si desse quello che chiamò il potenziale quantistico. E teorizzò che questo potenziale, al pari della gravità, pervadesse l’intero spazio. C’era poi, per Bohm, una differenza rispetto ai campi gravitazionali e magnetici: l’influenza del potenziale quantistico non diminuiva con la distanza. Per quanto sottili fossero i suoi effetti, tale influenza era ugualmente potente ovunque. Bohm, poi, denunciò la limitatezza del modo in cui la scienza contemporanea considerava la causalità. Per esempio si potrebbe chiedere a qualcuno che cosa fu a causare la morte di Abraham Lincoln. E questi potrebbe rispondere che fu il proiettile sparato dalla pistola di John Wilkes Booth. Ma una spiegazione più completa dovrebbe includere non solo tutti i fattori che indussero Booth a uccidere il presidente degli Stati Uniti, ma anche tutti gli eventi che condussero all’invenzione della pistola e prima ancora alle armi da fuoco.

E, insomma, una risposta adeguata dovrebbe comprendere l’intera evoluzione dell’umanità e, prima ancora, dell’intero universo. Nello svolgere e approfondire il suo concetto di potenziale quantistico, Bohm pervenne a definirlo come ‘interezza’. Una tale ‘interezza quantica‘ funziona in modo più simile all’unità organica di un essere vivente, che non all’unità ottenuta mediante l’assemblaggio delle parti di una macchina. A questo livello subquantistico viene meno ogni localizzazione di parti in spazi diversi. Ciascun punto dello spazio equivale a ciascun altro. È la proprietà che i fisici chiamano ‘nonlocalità‘. A noi che lo captiamo, un elettrone si può esprimere nella forma di un corpuscolo, di una particella. Esso, tuttavia, nella sostanza non è una particella elementare: è semplicemente un nome che noi diamo ad un particolare aspetto della realtà intera. La realtà totale è definibile un ologramma in movimento. Così quelle che noi chiamiamo ‘parti’ o ‘particelle’ non possono mai ritenersi separate dal tutto, nella stessa maniera per cui i diversi getti di una fontana non potrebbero mai considerarsi separati dall’acqua che ne sgorga.

Siamo, perciò, ben lontani anche dall’idea che la totalità dell’universo sia una massa amorfa, indifferenziata. Un’altra idea di Bohm appare interessante all’estremo: che la materia sia, nel fondo, coscienza, e si esprima in un insieme di modi e gradazioni di coscienza. Nell’elettrone c’è già qualcosa di simile alla mente. E, similmente a un qualsiasi frammento di pellicola olografica, ciascuna porzione dell’ologramma cosmico contiene l’immagine dell’intero. Nell’unghia del pollice della nostra mano sinistra possiamo trovare l’incontro di Cesare e Cleopatra, come l’intera galassia di Andromeda. Tutto questo apporta un nuovo significato alla celebre poesia di William Blake che dice: “Vedere un mondo in un granello di sabbia e un paradiso in un fiore selvatico, tenere l’infinito nel palmo della tua mano e l’eternità in un’ora”. Bohm sostiene, poi, che, malgrado la sua materiale concretezza e immensità di dimensioni, l’universo non esiste di per sé per virtù propria, ma deriva da qualcosa di più fondamentale: è l’esprimersi visibile di un “ordine implicito” ancor più essenziale e originario. E non è detto che questo sia il limite ultimo delle cose.

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Vorrei osservare che rimane, qui, un adeguato spazio per un vero assoluto e per un Dio creatore. Vorrei notare ancora che, se Dio è Coscienza, c’è sicuramente un posto per Dio in un universo come quello bohmiano, dove, essendo tutto infinitamente interconnesso, sono interconnesse anche tutte le coscienze nell’unità di una Coscienza assoluta, infinita e quindi eterna. Il volume di Michael Talbot, dalla cui prima parte ho attinto questi dati, ci offre un quadro assai chiaro di come l’idea dell’universo come ologramma prenda forma dalle ricerche della nuova fisica. Personalmente, avevo già avuto modo di trattare la questione, di come la medesima idea olografica della realtà intera possa emergere da uno studio approfondito di vari fenomeni. Avevo, però, concentrato l’attenzione su aspetti differenti, anche se molto collegati a questo. Quanto ho letto, con estremo interesse, nel successivo corso del libro di Talbot non fa che confermare le risultanze della mia personale indagine.

Il carattere nonlocale della memoria e della vista suggerisce che il cervello non va identificato col soggetto di quelle funzioni, ma è un semplice strumento, di cui il soggetto umano si può servire o meno. Un animale o un uomo può ricordare e vedere anche quando ampie porzioni del cervello siano state asportate. Egli può ancora utilizzare, come organo della vista, un’altra parte del corpo, ad esempio i polpastrelli delle dita, in luogo dell’occhio. Tutto questo suggerisce la conclusione che un soggetto vede e ricorda, non solo, ma vive le sue esperienze ed assume le proprie decisioni non col cervello, ma con la mente: con una mente che continua ad agire in modo pieno anche in circostanze in cui il cervello e il resto del corpo interrompano il loro normale funzionamento. È quanto si può notare nel corso delle esperienze fuori del corpo e delle esperienze di premorte.

La mente umana può anche esprimersi in una forma simile a quella di una sfera o di una nubecola. In ogni caso la mente si può localizzare a piccola distanza dal corpo fisico abbandonato. Ma può, ancora, trasferirsi ad una distanza anche immensa, fino ad entrare in intimo contatto con la mente di un altro essere umano o fino ad inserirsi in una situazione corporea, in un luogo fisico. Nell’immedesimarsi in un’altra mente, il soggetto umano di cui si parla, può comunicare con essa in maniera diretta, attraverso un fenomeno di telepatia. Nell’immedesimarsi in una situazione fisica lontana, può conoscere qualcosa di essa. E non certo per la mediazione di organi di senso, che in questo caso mancano, ma direttamente. Si avrà, in questo secondo caso, un fenomeno di telestesia o chiaroveggenza nel presente. Si tratta pur sempre, qui, di un relativo identificarsi nell’altra persona e nell’altro luogo. Il soggetto umano che esperisce è qui, ed è, ad un tempo, immedesimato in quella persona e in quel luogo, pur siti a grandissima distanza.

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A differenza di quel che può verificarsi in fenomeni più accentuatamente fisici (come gli acustici e gli elettromagnetici), la distanza, come tale, non limita in alcun modo il fenomeno di telepatia e di chiaroveggenza, diciamo così, nella sua efficacia e buona riuscita. Un soggetto umano può curarne un altro, malato, con le proprie mani, praticandogli massaggi o medicandolo o intervenendo con una operazione di chirurgia. Ma può altresì curarlo senza la mediazione delle mani e del proprio corpo in genere. Può trasferire in lui il proprio psichismo, in tal maniera che questo agisca direttamente sullo psichismo dell’infermo. Tale diretta azione dello psichismo del ‘guaritore‘ o del ‘pranoterapeuta‘ su quello disarmonico di un uomo sofferente potrà riequilibrarlo, perché esso a propria volta possa agire sul fisico nella maniera più positiva e proficua, facendolo funzionare nella maniera giusta.

Possiamo chiederci in che modo la mente del guaritore possa agire sulla mente del malato in maniera così diretta. La risposta, anche qui, è: trasferendosi nel suo intimo. Un tale trasferimento sarà effettivo, sia che il malato si trovi accanto a chi lo cura, sia che si trovi in luogo anche molto distante. Come si vede, al pari che nei fenomeni di telepatia e di chiaroveggenza nel presente, anche nei fenomeni di guarigione psichica e spirituale, lo spazio viene come abolito. Il conoscente e il conosciuto, il terapeuta e il malato da curare sono entrambi, per così dire, nel medesimo spazio: sono due in uno. Anche queste fenomenologie confermano la natura olografica della realtà universale.

Un sensitivo che voglia mettersi in contatto con una persona da lui distante, o a lui sconosciuta, per poterne sapere qualche cosa, dove si trovi, e simili, usa spesso un oggetto che sia particolarmente impregnato di quella persona: per esempio un fazzoletto, un anello o un orologio che quella persona abbia l’abitudine di portare addosso. Tra la persona e l’oggetto di sua proprietà c’è già una identificazione. Non certo in termini strettamente logico-matematici ma in termini partecipativi si può dire che, in qualche modo, quell’oggetto è quella persona. A sua volta il sensitivo, tenendo l’oggetto in mano e concentrandosi su di esso, finisce per identificarsi con esso, finché nei medesimi termini partecipativi si possa dire che il sensitivo è l’oggetto. L’identificazione con l’oggetto, che è già tutt’uno con la persona ricercata, consentirà di dire che il sensitivo è quella persona. Un guaritore potrebbe identificarsi col malato, per curarlo, avvalendosi anche lui di un oggetto strettamente connesso con lo stesso infermo.

universo olografico

Non è che il mondo delle apparenze sia errato; non è che non esistano oggetti là fuori, a un certo livello della realtà. È che se lo attraversate e osservate l’universo con un sistema olografico, giungete a una visione differente, una diversa realtà. E quest’altra realtà può chiarire cose che sono finora rimaste scientificamente inesplicabili: fenomeni paranormali, sincronicità, la coincidenza apparentemente significativa degli eventi, i quali ci danno gli indizi per capire che tutto è uno.

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