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Julian Assange e WikiLeaks: la storia che ha fatto tremare il mondo

La storia del web è ricca di personaggi che hanno saputo lasciare un segno, spesso parliamo di imprenditori, importanti pensatori e filosofi. In pochi però, parlano di una delle persone che ha completamente cambiato il modo di vedere la rete e il mondo che vi è al suo interno, sia virtuale che reale, il quale ha fatto tremare i governi di tutto il mondo con una delle fughe di notizie segrete più importanti di sempre: Julian Assange. Questa grande rivoluzione si è basata su un piccolo ed innocuo sito, che a molti poteva non dire nulla a metà del decennio appena terminato, ma che ha saputo ridefinire le regole del mondo: WikiLeaks. Il termine deriva dall’inglese “leak”, ossia “perdita-fuga”. E’ un sito web gestito, ad oggi, da una organizzazione internazionale il cui scopo è quello di divulgare informazioni e documenti coperti da segreto: segreto di stato, segreto militare, segreto industriale, segreto bancario o comunque confidenziali. WikiLeaks, per scelta, non ha alcuna sede ufficiale e non permette la modifica libera dei documenti. Infatti vuole essere una versione irrintracciabile di Wikipedia che consenta la pubblicazione e l’analisi di massa di documentazione riservata. Lo scopo ultimo è quello della trasparenza da parte dei governi quale garanzia di giustizia, di etica e di una più forte democrazia.

Il nome del dominio wikileaks.org è stato registrato il 4 ottobre 2006 e ha pubblicato il primo documento nel dicembre dello stesso anno. Il fondatore Julian Assange è stato pubblicamente presentato nel gennaio 2007, ma lui si riconosce semplicemente come membro del Consiglio Consultivo di Wikileaks. Inoltre i ruoli e le identità di tutti i membri, collaboratori e amministratori sono tutt’ora in gran parte ignoti. In quel periodo i fondatori asserirono di aver circa 1,2 milioni di documenti trapelati pronti per essere pubblicati. Un enorme archivio dell’informazione globale di natura antirepressiva e anticensoria, che fa del web la sua arma più temuta da dittatori e multinazionali. Milioni di trasmissioni segrete passano tutt’ora attraverso questa rete. In Gran Bretagna, per molti mesi il Guardian è stato l’unico giornale a scrivere di WikiLeaks e a utilizzare alcuni dei suoi documenti segreti.

Australian founder of whistleblowing web

Nell’agosto del 2007, per esempio, il Guardian mise le mani su un rapporto riservato dell’agenzia investigativa Kroll nel quale si spiegava come il presidente del Kenya, Daniel Arap Moi si era impossessato di centinaia di migliaia di sterline per nasconderle in conti correnti di banche straniere in almeno trenta paesi diversi. Nel generale disinteresse, pian piano Julian Assange stava diventando il pioniere di un uso inconsueto e interessantissimo delle tecnologie digitali, sfidando regimi autoritari e corrotti. Probabilmente il suo nome non avrebbe detto proprio nulla a Hillary Clinton in quei giorni, ma nemmeno nel gennaio del 2010, quando come segretario di Stato degli Stati Uniti la Clinton tenne un impegnativo discorso sulle potenzialità di ciò che lei stessa definì “un nuovo sistema nervoso per il nostro pianeta” e parlò di controinformazione digitale, “i samizdat dei nostri giorni”, un sistema informativo paladino della trasparenza, che avrebbe messo in crisi un ordine mondiale vecchio e corrotto. Poi però lanciò anche un ammonimento. I governi autoritari avrebbero duramente preso di mira questa nuova corrente di libero pensiero sostenuto dalla tecnologia. Naturalmente, dicendo questo, pensava ai regimi chiusi come l’Iran.

Le sue parole sul radioso ed eroico futuro dei nuovi samizdat calzavano a pennello su Julian Assange, questo strano e silenzioso hacker australiano tutto preso a inventare sistemi innovativi, immuni da attacchi tecnologici (e legali), per svelare i segreti del mondo. Naturalmente Hillary Clinton non poteva immaginare che nel giro di meno di un anno avrebbe fatto marcia indietro a tutta forza, questa volta per bollare come spioni digitali i campioni della trasparenza per il loro uso dei media elettronici. Durante una conferenza stampa organizzata in tutta fretta nel novembre 2010, Hillary Clinton parlò di un attacco “non solo agli interessi della politica estera americana, ma all’intera comunità internazionale”. Negli undici mesi trascorsi dal primo intervento della Clinton, Julian Assange era diventato una celebrità, organizzando la più grande fuga di informazioni nella storia del mondo, solo che questa volta a essere smascherate non erano le autorità di un piccolo paese dell’Africa orientale, bensì la più potente nazione della Terra: gli Stati Uniti.

A pochi anni dal suo esordio nel mondo della comunicazione, Assange è stato catapultato fuori dalla sua vita anonima di Nairobi, da dove diffondeva informazioni e documenti ai quali pochi dedicavano qualche attenzione, arrivando a pubblicare un’alluvione di documenti segreti che hanno colpito al cuore l’apparato militare americano e innumerevoli operazioni di politica estera. Dal suo ruolo di figura tutto sommato marginale nel mondo dei fanatici del computer, magari invitato a partecipare a qualche tavola rotonda, è improvvisamente diventato per gli Stati Uniti il nemico pubblico numero uno. Per alcuni un nuovo messia dei media, per altri un cyberterrorista. Come se non fosse abbastanza, in tutto questo ci sono anche due donne che lo accusano di stupro in Svezia. Sarebbe troppo per chiunque.

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Dopo aver lasciato Nairobi, Assange ha coltivato le sue ambizioni e si è dedicato a WikiLeaks e alle sue potenzialità. Insieme con altri hacker aveva già elaborato una sua filosofia della trasparenza e raggiunto un primo obiettivo, ovvero una virtuale invulnerabilità di WikiLeaks sia dal punto di vista di eventuali attacchi informatici da qualunque fonte, sia dal punto di vista legale, e da qualunque giurisdizione. Fior di avvocati, pagati profumatamente per proteggere la reputazione di clienti ricchissimi o di importanti multinazionali, hanno ammesso con toni incerti tra l’ammirazione e la frustrazione che WikiLeaks era l’unico editore al quale non potevano mettere una bella mordacchia. Il che per i loro affari era un vero disastro. Al Guardian avevano dei buoni motivi per guardare con interesse e rispetto all’ascesa di WikiLeaks. In due casi, uno che coinvolgeva la Barclays e un altro che riguardava la conglomerata Trafigura (petrolio, carbone, ferro, trasporti marittimi e altri investimenti), il sito di WikiLeaks aveva pubblicato documenti di cui un tribunale britannico aveva ordinato la secretazione.

Fu un brutto periodo, quello tra il 2008 e il 2009, quando l’Alta Corte di Londra prese l’abitudine non solo di proibire la diffusione di documenti di grande interesse pubblico, ma addirittura di impedire la pubblicazione di notizie inerenti l’esistenza stessa dei procedimenti e l’identità delle parti coinvolte. Uno studio legale londinese superò sé stesso tentando perfino di estendere il divieto ai resoconti di dibattiti parlamentari su materiali pubblicati dal sito di WikiLeaks. Esattamente come le grandi corporation, anche i giudici non sapevano che pesci pigliare davanti al nuovo fenomeno dell’informazione digitale. In un’udienza del marzo 2009 l’Alta Corte di Londra decise che nessuno poteva essere autorizzato a stampare su carta documenti che rivelassero le strategie della Barclays per aggirare il fisco, anche se il materiale era sotto gli occhi di tutti, appunto sul sito di WikiLeaks. La legge in quel caso fece una figura barbina.

Ma questo sistema così invulnerabile di pubblicazione sollevò interrogativi complessi. Per ogni caso simile a quello della conglomerata Trafigura, ce ne potevano essere altrettanti in cui WikiLeaks poteva essere usato per diffondere calunnie e distruggere qualcun altro. Tutto questo fece di Assange un personaggio potentissimo. Il fatto che tra i suoi stessi colleghi circolassero lamentele a proposito dei suoi modi autocratici e misteriosi non attenuò affatto i timori nei confronti di questo nuovo protagonista del mondo dei media. La domanda che cominciò a circolare era: Ma chi diavolo è questo tizio che si muove nell’ombra e gioca a fare Dio?. Come potevano essere certi, lui e il suo team, dell’autenticità di un particolare documento? In base a quali criteri, a quale cornice etica, veniva deciso di pubblicare alcune informazioni e non altre? E chi lo decideva? Tutto questo voleva dire che Assange, probabilmente suo malgrado, veniva assimilato al ruolo di ogni altro direttore di giornale.

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L’incredibile esplosione di WikiLeaks nel grande teatro dei media e nell’immaginario collettivo cominciò con un incontro nel giugno 2010 tra Nick Davies del Guardian e Assange stesso. Davies aveva cercato Assange dopo aver letto alcune prime indiscrezioni sull’eventuale pubblicazione di uno straordinario tesoro di documenti segreti di carattere militare e diplomatico e voleva convincerlo che tutta la storia avrebbe avuto un impatto maggiore se WikiLeaks avesse stretto un’alleanza con uno o due giornali tradizionali, benché, agli occhi dell’universo degli hacker, sarebbero forse apparsi come vigliacche gazzette compromesse con il potere. Fu siglato un accordo. E così nacque una collaborazione tra i quotidiani (inizialmente tre), il misterioso vagabondo australiano e la sua altrettanto misteriosa organizzazione, qualunque cosa fosse, cosa che in realtà non è stata mai chiarita del tutto.

Anche nelle migliori circostanze, Assange era sempre difficile da contattare, cambiava di continuo telefoni cellulari, indirizzi email e chat room codificate e con la stessa frequenza cambiava dimora. Di tanto in tanto si faceva vedere accompagnato da un altro suo collega, forse un giornalista, un hacker, un avvocato o un non meglio identificato assistente, ma spesso e volentieri viaggiava tutto solo. Non si riusciva mai a capire in quale fuso orario si trovasse. Per lui non era molto importante la differenza tra la notte e il giorno, come lo è per le persone normali. Ciò che allora cominciò fu un’operazione giornalistica piuttosto tradizionale, anche se si fece ricorso a nuove competenze di analisi e visualizzazione di dati sconosciute nei desk operativi dei giornali fino a poco tempo prima. Il responsabile della sezione investigativa del Guardian, David Leigh dedicò l’estate a leggere con voracità il materiale. Il vicedirettore del giornale Ian Katz cominciò a dirottare sul caso forze più nutrite. Negli uffici del Guardian a King’s Cross furono allestite squadre ad hoc per mettere ordine nell’immensa mole di informazioni. Così negli uffici di New York e Amburgo e, più tardi, a Madrid e Parigi.

La prima cosa da fare era costruire un motore di ricerca in grado di dare un senso alle informazioni, per poi passare il materiale ai corrispondenti dall’estero e agli analisti di politica estera con una conoscenza dettagliata dei conflitti afgano e iracheno. L’ultimo passo di questo processo sarebbe stato l’elaborazione di un protocollo di redazione per far sì che il materiale pubblicato non mettesse in pericolo qualche fonte vulnerabile o potesse compromettere operazioni speciali ancora in corso. Tutto questo richiese una grande quantità di tempo, sforzi, risorse e tenacia. Dare un senso ai file di WikiLeaks non fu facile. Negli annali del giornalismo c’è poco, forse nulla, di paragonabile a quest’operazione. Nessuna redazione ha avuto a che fare con un database così enorme, composto, secondo le stime, di circa trecento milioni di parole (basti pensare che i famosi Pentagon Papers, pubblicati nel 1971 dal New York Times, arrivavano solo a due milioni e mezzo di parole). Una volta completata l’opera di redazione, i documenti furono divisi tra cinque quotidiani e quindi mandati a WikiLeaks.

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Il laboriosissimo processo di redazione, a fronte di un numero relativamente limitato di dispacci effettivamente pubblicati, è stato apparentemente sottovalutato da molti commentatori. Alcuni autorevoli giornalisti americani hanno parlato sprezzantemente di una confusa immissione in massa di documenti, delle possibili conseguenze e di vite messe in pericolo. Ma, a oggi, non c’è stata proprio nessuna pubblicazione in massa di un bel niente. Dei duecentocinquantamila dispacci diplomatici di cui WikiLeaks è entrato in possesso, ne sono stati pubblicati nemmeno duemilacinquecento e, trascorsi ormai sei mesi dalla loro diffusione, nessuno è stato in grado di dimostrare che qualcuno abbia rischiato per questo la vita. Non è possibile raccontare questa storia senza ricostruire quella di Julian Assange, anche se con tutta evidenza la questione WikiLeaks e la filosofia che ne deriva mantengono un significato ben più ampio e duraturo. Più di un autore ha paragonato Assange a John Wilkes, giornalista, parlamentare e libertino del diciottesimo secolo che rischiò la vita in numerose battaglie per la libertà di espressione. Altri lo hanno accostato a Daniel Ellsberg, la fonte segreta dei Pentagon Papers, descritto dall’ex direttore esecutivo del New York Times come “un uomo dalla mente acuta e tormentata e di indole imprevedibile”.

Il pubblico e i media si sono divisi. Alcuni hanno visto Assange come un nuovo messia cibernetico e altri come un James Bond in versione canagliesca. Questi giudizi, entrambi estremi, hanno attribuito al personaggio poteri sovrumani nel bene o nel male. Il copione si è fatto ancora più confuso nello scorso dicembre, quando Assange è stato costretto, come condizione per la sua libertà vigilata, a vivere a Ellingham Hall, una residenza georgiana circondata da centinaia di acri nelle campagne del Suffolk. È stato come se un canovaccio dello scrittore svedese Stieg Larsson fosse stato adattato da Julian Fellowes, l’autore del serial televisivo Downton Abbey. Pochissimi sembrano considerare Assange semplicemente un tipo con cui si può lavorare facilmente.

Jack Shafer, columnist della testata on line Slate, ha centrato bene i segni del personaggio in una sintetica analisi:

“Assange confonde i giornalisti con cui collabora perché rifiuta sistematicamente di adeguarsi al modo di agire che essi si aspettano da lui. A seconda di ciò che gli fa comodo, si può comportare come una fonte riservata, indossare l’abito dell’editore o del giornalista di diversi giornali associati. Come un vero uomo di comunicazione manipola gli apparati d’informazione per massimizzare la visibilità dei suoi clienti, ma è anche capace di minacciare, se ne ha motivo, di sparare notizie bomba, come un agente provocatore. È un astuto camaleonte, non sta mai fermo, un negoziatore imprevedibile che non esita a cambiare continuamente i termini di un accordo”.

La sfida mossa da WikiLeaks ai media in generale (per non parlare di governi, aziende o multinazionali illuminate a giorno nei loro comportamenti) non è stata una passeggiata. L’impulso iniziale del sito web è stato quello di pubblicare più o meno tutto. Gli uomini di WikiLeaks diffidavano di ogni contatto che potesse aver luogo tra i colleghi dei giornali e gli apparati della burocrazia ufficiale. Parlare con il Dipartimento di Stato USA, il Pentagono o la Casa Bianca, come ha fatto il New York Times prima di pubblicare ogni puntata della storia, era qualcosa di pericoloso, provocava gravi tensioni e metteva a repentaglio l’equilibrio dei rapporti con WikiLeaks. Poco prima dell’esplosione del cosiddetto ‘Cablegate’, lo stesso Assange, consapevole del rischio di danneggiare dissidenti o altre fonti di informazioni, si offrì di parlare con il Dipartimento di Stato. L’offerta fu rifiutata.

A masked supporter of Julian Assange outside the Embassy of Ecuador in Knightsbridge, central London-1264755

WikiLeaks e altre organizzazioni simili sono encomiabili per il loro spirito di trasparenza e apertura incondizionata. Ciò che è davvero sorprendente, inoltre, è che, nonostante l’enorme mole di informazioni rese pubbliche nel corso dei mesi, non si è verificato nessun disastro, come qualcuno ha temuto. I nemici di WikiLeaks sono tornati ripetutamente su questo punto e cioè sui danni provocati dal Cablegate. Sarebbe interessante avviare una ricerca, magari da parte di un’istituzione accademica di provata serietà, per misurare il rapporto costi-benefici dell’operazione. A giudicare dalle reazioni di paesi che non hanno la fortuna di avere una stampa libera, si può dire che i dispacci pubblicati abbiano placato una grande sete di informazione, una fame di conoscenza che contrasta con gli sbadigli dei sofisticati ceti metropolitani, convinti che i dispacci pubblicati non hanno aggiunto nulla a ciò che già si sapeva. Invece di reagire con una fuga precipitosa verso forme di segreto più impenetrabili, proprio questa potrebbe essere l’occasione per elaborare una sorta di scheda di valutazione dei vantaggi e degli inconvenienti della trasparenza, anche se forzata.

Un simile approccio, e cioè una razionale considerazione di nuove forme di trasparenza, dovrebbe andare insieme con le inevitabili domande sul sistema di classificazione delle informazioni degli apparati di sicurezza USA. Come è stato possibile che qualcuno, chiunque sia, abbia avuto accesso alle riflessioni di re, presidenti, dissidenti e oppositori per poi decidere di passarle a WikiLeaks? Ogni organizzazione giornalistica, per un verso o per l’altro, è alle prese con i problemi etici che derivano dal contatto con le fonti e soprattutto dalla decisione di pubblicare.

Una delle lezioni che si ricavano dal progetto WikiLeaks è che la collaborazione è possibile. È difficile pensare a qualche altro esempio di apparati di informazione che lavorano insieme, come hanno fatto il Guardian, il New York Times, Der Spiegel, Le Monde e El País, paragonabile all’operazione WikiLeaks. Credo che a tutti i cinque direttori coinvolti piacerebbe immaginare altre occasioni per mettere in comune lavoro e risorse. La storia del resto è ben lontana dall’essere esaurita. Nel Regno Unito il Guardian è andato incontro solo a critiche molto tiepide per aver pubblicato il materiale di WikiLeaks, ma l’indulgenza dei critici non si è sempre estesa al sito web di Assange. La maggior parte dei giornalisti ha potuto apprezzare con chiarezza il valore e l’interesse pubblico del materiale pubblicato. Negli Stati Uniti non sembra sia andata così. Lì hanno avuto luogo discussioni decisamente più avvelenate e faziose, inquinate da idee divergenti di patriottismo.

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Insomma, Julian Assange ha saputo, nel bene o nel male, cambiare le cose facendo tremare i governi di tutto il mondo con un organizzazione che continuerà la sua battaglia verso nuove scoperte, provando a migliorare le cose da uno dei mezzi più importanti della storia di questo pianeta. Potranno criticarlo, ricercarlo, rinchiuderlo e insultarlo, ma la sua influenza e il suo operato rimarranno per sempre nella storia del web.

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