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La materia diverrà programmabile

Come ragazzi sognatori, quasi dieci anni fa, due ricercatori americani, Seth Goldstein e Todd Mowry iniziarono a credere che sarebbero riusciti a rivoluzionare la realtà per sempre e, dopo tanti sforzi, oggi ci sono molto vicini. Tutto iniziò appunto nel 2004, anno in cui Goldstein, professore associato di ingegneria informatica presso la Carnegie Mellon University di Pittsburgh, e Todd Mowry, direttore dell’Intel Research Lab, nella stessa università, costruirono i primi rudimenti di ‘materia programmabile’. Gli studi e le ricerche presero il nome di claytronica, una disciplina applicata che si occupa della creazione e dello sviluppo di nano robot e assemblatoti molecolari. Il nome deriva dalla crasi di ‘clay’, che vuol dire argilla, ed ‘electronics’.

I mattoni intelligenti che compongono tale materia sono stati definiti ‘catomi‘, dalla crasi di claytronica e atomi. Intelligenti si, perché ogni catomo può immagazzinare energia e contenere un microprocessore in grado di farli muovere, agganciandosi ad un altro catomo, mentre alcuni sensori gli permettono di ‘dialogare‘ e quindi assumere forme diverse. Negli anni la disciplina, divenuta un settore dell’ingegneria emergente, ha visto l’interesse di grandi università e studi di ricerca, che oggi concorrono nella sfida che rivoluzionerà la percezione del mondo circostante, con il nome di ‘realtà sintetica‘.

Passi graduali sono stati fatti negli anni, ma oggi un rilevante traguardo è stato raggiunto attraverso quello che viene definito ‘autoassemblaggio‘, il processo mediante il quale le parti disordinate vanno a comporre una struttura ordinata, solo attraverso l’interazione locale e che vede la nascita di nuove scuole di pensiero circa l’utilizzo di tecniche e materiali. In altre parole, spiega Skylar Tibbits, direttore del Self-assembly Lab del Massachusetts Institute of Technology, il famoso MIT:

“Presto avremo a che fare con materiali che si generano da soli e si autoassemblano in maniera molto simile a quella in cui si compone un filamento di DNA”.

Il progetto si basa anche sullo sviluppo di stampanti 4D, in cui lo stesso Tibbits sta lavorando. Nel futuro prossimo si metterà in atto un processo produttivo che avrà come quarta dimensione il tempo, immettendo cioè nel DNA degli oggetti la possibilità di cambiare, di adattarsi al loro ambiente e di evolvere; magari per diventare ciò che in quel momento desideriamo o molto tempo prima abbiamo programmato.

Nella previsione di Seth Goldstein e Todd Mowry, entro il 2030 tutto potrà trasformarsi a seconda delle nostre esigenze, ma anche dei nostri stati d’animo. Gli oggetti appariranno e scompariranno attraverso le pareti delle nostre stanze, cambieranno forma e si modelleranno in base alle necessità. Skylar Tibbits sostiene:

“Sarà una questione di software, gran parte del processo produttivo riguarderà l’abilità nel programmare materiali fisici e biologici in grado di cambiare forma, persino proprietà, riuscendo a fare calcoli senza componenti in silicio. C’è un mondo che abbiamo appena iniziato a scoprire. Oggi su micro e nano scala sta avvenendo una rivoluzione mai vista prima”.

Anche se gli ostacoli non mancano, come spiega Goldstein:

“Ci sono ancora da affrontare tutte le sfide possibili, come l’attrito, il calore e la gestione di calore per far si che le macchine indipendenti, di dimensioni nanometriche, possano automaticamente riassemblarsi e assumere qualsiasi forma”.

Immaginiamo, per esempio, di compare una libreria a pezzi, la quale si compone e si scompone come e quando vogliamo noi, al solo nostro input. O pensiamo alla carrozzeria di un’automobile che modifica la sua struttura a seconda dei cambiamenti climatici e delle strade su cui viaggia. Il progetto di Seth Goldstein e Todd Mowry però, va molto oltre la trasformazione dei materiali nel tempo, a seconda delle esigenze o dell’ambiente; inoltre viaggia verso scenari ancora più affascinanti: cioè la possibilità di creare un oggetto claytronico a distanza, duplicando l’originale. Queste le parole del professor Jonathan Aldrigh, membro del team della Carnegie Mellon, che spiega il progetto di cui si occupa sin dall’inizio:

“Se riusciamo a riprodurre una forma da una posizione remota usando la tecnologia ‘motion capture’, allora i catomi potrebbero riprodurre ogni genere di cosa si trovi in un altro luogo: un fenomeno che chiamiamo telepresenza. L’oggetto originale non si sposta dal luogo in cui si trova, viene ‘solo’ scannerizzato a livello molecolare, per essere ricostruito nel luogo di destinazione. E, sia chiaro, il risultato non sarà un ologramma tridimensionale, ma proprio la materializzazione di un oggetto fisico, che si può non solo vedere, ma addirittura toccare.

Scardinata questa porta, la visione può andare ancora oltre e portare fino alla scansione di esseri umani.

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