Sempre più in aumento le diagnosi di cancro al seno, il più frequente nel sesso femminile. Grazie alla prevenzione, se individuato in uno stadio iniziale, si può combattere quasi al 100%. Secondo uno studio recente, importante è anche conoscere il DNA del tumore, in modo da stabilire l’evoluzione della malattia ma anche la cura migliore, che comporti meno tossicità per la paziente ed eviti, magari, la chemioterapia.
Solitamente la scelta terapeutica è già iscritta nella storia genetica, ma in altri la combinazione di alcune caratteristiche porta a credere che non ci sia la sola possibilità del trattamento ormonale standard o con l’aggiunta di chemioterapia. Il 31 gennaio 2014, in occasione del “Forum internazionale” sui test genomici, è stato affrontato questo tema, per riuscire a stabilire a seconda dei casi, una cura personale e specifica.
“Disporre di un test genomico che si affianchi agli altri parametri di tipo anatomo-clinico e biologico – dichiara Francesco Cognetti, direttore del Dipartimento di Oncologia Medica dell’Istituto Nazionale Tumori Regina Elena – IFO di Roma – consente di effettuare un’indagine sulla natura del tumore molto più raffinata. Oggi questo tipo di analisi, mirate alla definizione della prognosi, è comunque possibile ma avviene solo tramite una valutazione immunoistochimica che si effettua sul pezzo istologico”.
Si parla di un test innovativo, genomico, su 21 geni specifici, di cui si analizza l’interazione e la funzionalità, ovvero il profilo molecolare. Occorre prelevare un campione di tessuto malato, durante l’operazione o la biopsia. Dopo 10/14 giorni si possono avere i risultati. Il test deve essere eseguito prima dell’inizio di qualsiasi decisione al trattamento. Grazie a questo test si può ipotizzare se il tumore si ripresenterà a 10 anni dalla diagnosi e soprattutto se la chemioterapia sia necessaria.
“È un traguardo molto importante – aggiunge Riccardo Masetti, direttore dell’Unità Operativa di Chirurgia Senologica del Policlinico Universitario “Agostino Gemelli” di Roma – se si considera che in Italia i nuovi casi di tumore del seno si aggirano, ogni anno, intorno ai 40mila di cui 4.200 nel Lazio e quasi 2.000 solo a Roma. All’interno di essi, esiste una proporzione del 10-15% dei tumori ormonodipendenti nei quali la scelta delle terapie post-chirurgiche risulta davvero difficile. In questi casi un test genomico che dia indicazioni più chiare sui rischi di ripresa della malattia e sui benefici della terapia può fare la differenza, aiutando il medico a valutare meglio la reale efficacia di un trattamento chemioterapico aggiuntivo alla normale terapia ormonale, e offrendo alla paziente maggiori garanzie sull’efficacia di tale trattamento”.
“Il test – precisa il professor Cognetti – è indicato nei casi cosiddetti ‘borderline’, ossia con malattia allo stadio iniziale, con l’espressione del recettore per l’estrogeno (ER+) o per il Progesterone (PgR+) e linfonodi ascellari negativi, nei quali cioè i parametri biologici non consentono di definire con sicurezza quale sia il livello di rischio per una ricaduta né quale sia il trattamento più adeguato. Il test, invece, non è indicato con malattia estesa anche ai linfonodi ascellari: in questo caso la donna deve essere comunque sottoposta a chemioterapia poiché il rischio di sviluppare metastasi è maggiore e la prognosi è più sfavorevole”.