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Datagate, The Guardian: “Così abbiamo svelato lo scandalo NSA”

Il Datagate può essere considerato come uno degli scandali più importanti degli ultimi anni, nonché il più importante della storia dell’informatica. Il protagonista dell’operazione è il ‘The Guardian‘, che in pochi mesi è riuscito rilevare i dati necessari da rendere pubblici.

Dopo circa cinque mesi dall’inizio dello scandalo, la direttrice dell’edizione USA del giornale britannico, Janine Gibson, racconta i retroscena di una delle più grandi operazioni di giornalismo investigativo degli ultimi tempi. Tutto cominciò nel mese di maggio, con una chiamata di Glenn Greenwald, il quale fu incaricato di investigare sulle operazioni che la National Security Agency compiva per rendere gli Stati Uniti un paese sicuro e tranquillo, ma non solo. Un lavoro lungo mesi, con alcuni frenetici momenti in cui le decisioni dovevano essere prese in fretta, gli scambi a volte tesi con le autorità, le implicazioni per il destino e il ruolo del giornalismo ovunque nel mondo.

Un racconto che ha alcune basi fondamentali: il giornalismo investigativo deve dotarsi di sistemi di protezione sicuri per attrarre le proprie fonti, e non si può più lavorare da soli ma occorre cercare la collaborazione di altri media per proteggere le proprie organizzazioni dalle inevitabili ritorsioni. Una scelta etica, giuridica e in conclusione squisitamente giornalistica, che oggi ha reso il ‘The Guardianun modello di riferimento per il giornalismo investigativo.

Janine Gibson ricorda:

“Greenwald ebbe alcune conversazioni con Edward Snowden, gli chiese dei primi materiali e poi venne a New York per discutere con noi, ci incontrammo e guardammo i documenti. Due questioni preliminari si ponevano: se il materiale fosse autentico e se lo fosse la fonte. Se fosse stato così, ci apparse subito chiaro che era una storia enorme. Anche solo quello che avevamo avuto in anticipo, la vicenda PRISM, era scioccante. Ma come verificare che fosse vero? Ci siamo chiesti se qualcuno volesse incastrarci e perché. Abbiamo scelto Ewen McAskill, un reporter del Guardian di grande esperienza, con il giusto grado di scetticismo, per prendere un aereo con Glenn e la filmaker Laura Poitras e andare a incontrare Snowden di persona a Hong Kong. Non potevamo parlargli per email o al telefono. Allora non sapevamo molto di comunicazioni criptate, né potevamo avere conversazioni basate su continui inserimenti di codici. Dovevamo fidarci delle persone inviate sul posto, del loro giudizio”.

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Dal primo contatto alla pubblicazione del primo articolo passò circa un mese. Fu il tempo delle verifiche:

“Non abbiamo mai pensato che quei materiali non andassero pubblicati. Fu più un processo di verifica e comprensione del materiale. Abbiamo discusso del potenziale impatto sulla sicurezza nazionale: alla fine la domanda più importante era: ‘ci saranno perdite di vite americane in conseguenza di questa pubblicazione?’. Abbiamo chiamato esperti e chiesto consiglio su questo”.

Il primo articolo apparve il 3 giugno:

“Lavoravamo di corsa, i reporter erano ancora a Hong Kong con Snowden. Sapevamo che dal primo articolo si sarebbe capito che c’era stata una fuga di notizie, al secondo la sua dimensione, al terzo l’indagine sarebbe andata rapidissima. Avevamo calcolato cinque giorni di tempo e dovevamo concentrarvi molte cose da fare, perché le indagini sarebbero state serrate e la fonte voleva rivelare la sua identità. Avevamo pianificato di far uscire prima la storia su Verizon poi su quella su Prism, prima di rivelare l’identità della fonte e mandare la videointervista. Snowden fin dall’inizio aveva reso chiaro di voler controllare la narrativa delle sue rivelazioni. Sulla prima storia avemmo molte discussioni con i funzionari dell’amministrazione. Quando abbiamo chiesto al gestore telefonico Verizon la verifica dell’ordine di sorveglianza, abbiamo registrato la loro reazione. Se avessero smentito subito avremmo dovuto fermarci. Loro hanno risposto con un no comment, lì abbiamo capito che il materiale era vero. Il tipo al telefono disse: ‘Di che agenzia si tratta, che giorno esattamente?’. Poi abbiamo avuto una telefonata con molti alti funzionari dell’amministrazione. Non erano felici, ovviamente. Ma la loro preoccupazione principale era il timing, non capivano perché volessimo andare così in fretta”.

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Gibson continua:

“Siamo stati molti chiari sul fatto che non avremmo scritto di un contesto generale di sicurezza nazionale, ma solo di quella storia specifica e i nostri legali ci avevano consigliato di chiedere se ci fossero potenziali rischi per la sicurezza nazionale molto specifici, non generici. Una volta fatta la telefonata eravamo pronti per pubblicare. Dopo 3 ore dalla pubblicazione della prima storia abbiamo cominciato a lavorare sulla seconda, quella su Prism. Abbiamo lavorato tutta la notte e l’abbiamo pubblicata nei 3-4 giorni successivi. In una grande stanza c’erano gli avvocati, i documenti, un sacco di computer. E poi c’era una stanzetta senza telefoni e senza computer, con solo una lavagna dove annotavamo le fasi”.

Il lavoro fu collettivo, anche se solo un gruppo ristretto nella redazione americana sapeva cosa stesse succedendo esattamente:

“Dopo la pubblicazione furono mesi molto intensi. Non è stata solo complessa e importante, ma anche una lunga storia, il che ha comportato un forte logorio per le persone. All’inizio avevamo avvertito lo staff che sarebbero successe cose pesanti nell’ufficio, che ci sarebbero state pressioni. Alcuni reporter hanno lavorato alla storia al buio, senza conoscere documenti. Il nostro giornalista economico dovette mandare una serie di email a compagnie tech per avere reazioni su Prism con domande molto specifiche senza sapere quasi nulla della storia, e lo fece benissimo ma chiedendosi sempre: ‘di che diavolo stiamo parlando?’. Poi c’erano quelli coinvolti direttamente. Due volte ci siamo molto preoccupati per Glenn, quando tornò in Brasile da Hong Kong, e fu molto dura per lui reintegrarsi nella sua vita. Ma lui è un tipo molto flemmatico. E poi quando il suo partner David Miranda fu fermato a Heathrow per nove ore, grazie a una legislazione che senza alcuna base permette il fermo in aeroporto per sospetti terrorismo”.

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La sorpresa più grande fu però la personalità della fonte, Edward Snowden. Racconta Gibson, ancora emozionata nel ricordo:

“Uno dei momenti rivelatori fu realizzare quanto fosse giovane e quante cose sapesse, e quanto fosse consapevole del proprio destino. Non aveva dubbi che la sua identità sarebbe stata rivelata, ma voleva farlo da solo. Aveva grande rispetto e gentilezza per media. Tutto il suo approccio per il giornalismo era molto solenne, e aveva chiaro che il ruolo dei media fosse rivelare queste informazioni al pubblico. Aveva ovviamente l’urgenza di far pubblicare il materiale ma non ha mai dato restrizioni su come avremmo fatto la storia. Ci ha dato tutto materiale, ha detto cosa secondo lui era importante. A McAskill ha consegnato il materiale sulla GCHQ, l’agenzia di sicurezza britannica, perché lui era britannico e gli ha detto: ‘decidi tu, il materiale è per certi versi più esplosivo di quello americano ma tu sei in grado di decidere meglio cosa va detto e cosa è nell’interesse nazionale'”.

In una recente intervista al New York TimesSnowden ha chiarito di non avere portato con sé in Cina e in Russia, dove attualmente risiede con un asilo di un anno, alcuno dei documenti ma di aver consegnato tutto subito ai giornalisti. In questo, hanno rilevato molti commentatori intervenuti a ONA, Snowden ha marcato una chiara distinzione con Julian Assange, il fondatore di WikiLeaks. La fiducia di Snowden nel ruolo dei media è il tratto che Gibson ritiene più distintivo, insieme al suo patriottismo:

“Da subito abbiamo capito che non voleva pubblicare il materiale da solo. Se guardi alla sua vita, è uno che si è arruolato nell’esercito, poi nella CIA, è molto patriottico. Poi ha scoperto cose che lo hanno portato su un percorso di disillusione. Ma non ha mai pensato di essere la persona in grado di decidere cosa pubblicare e cosa no, si è affidato ai media perché valutassero”.

Anche per il ‘The Guardian’ le conseguenze non sono state lievi. Soprattutto in Gran Bretagna dove non solo il governo, ma anche gli altri media, hanno sferrato pesanti accuse di violazione della sicurezza nazionale e addirittura tradimento:

“Ci aspettavamo una reazione negli Usa, ma paradossalmente qui abbiamo trovato sostegno e rispetto. Mentre in Gran Bretagna la reazione è stata di provincialismo. Abbiamo lavorato onestamente, sobriamente, con cura e abbiamo fatto tutto ciò che potevamo al meglio. Dopo WikiLeaks ricordo che pensammo: ‘non vedremmo mai una cosa di questa portata’. Ci sbagliavamo. Ora lavorare in sicurezza, con email criptate, fa parte della nostra routine e il pubblico lo sa”.

Il ruolo dei grandi giornali rimane comunque cruciale:

“Sono rimasta molto sorpresa quando ho saputo che Glenn andava via, ma non succede tutti i giorni che un multimiliardario venga e ti dica: ‘voglio realizzare il tuo sogno’.

La storia dell’Nsa però non sparirà:

“Continueremo a lavorare, abbiamo ancora tanto da fare. E lavoreremo con il New York Times e ProPublica. Non esiste organizzazione abbastanza grande per maneggiare da sola quella quantità di materiale. Le cose stanno già cambiando dopo che abbiamo incoraggiato il dibattito pubblico. Ad esempio ci sarà un cambio vertice al Nsa l’anno prossimo. La storia non sparirà, più persone ne parleranno e meglio sarà, decretando un vero cambiamento”.

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